Padre Pio Don Alberione

S. Giovanni Rotondo – 3 maggio 1965:
lo “storico” incontro di don Alberione con P. Pio.

DUE SANTI, COMPAGNI DI VIAGGIO DELL’UOMO CONTEMPORANEO

Padre Pio e don Alberione

di VALENTINO GAMBI

Il 2 maggio 1999, dopo solo 31 anni dalla morte, la Chiesa proclama beato Padre Pio. Don Alberione diventa venerabile il 25 giugno 1996 a 25 anni dalla morte.

DUE SANTI apparentemente distanti ed invece infinitamente vicini: perché espressioni originalissime della stessa sorgente d’amore, perché linguaggi attuali della misericordia di Dio, perché compagni di viaggio dell’uomo contemporaneo, nuovi samaritani appassionati sulle ferite di quanti tentano di dare un senso convincente al dramma della propria vita.

Tutti e due deboli e fragili, ma senza riserve, senza condizioni. Divorati dall’amore di Dio, divorati dall’amore per l’uomo. Contemplativi, testimoni silenziosi e modelli di vita consacrata, affascinante ed efficace.

Don Alberione nasce in uno squallido stanzone di un rustico a San Lorenzo di Fossano nel 1884; muore in una cameretta dai gusti francescani al secondo piano della Casa Generalizia della Pia Società San Paolo, in Roma, il 26-11-1971, senza aver riconosciuto Paolo VI che un’ora prima si era recato al suo capezzale per porgergli l’estremo saluto. A trent’anni fonda la prima congregazione religiosa e alla sua morte ne lascia 5, più 4 Istituti aggregati e l’Unione Cooperatori paolini. Forse nessuno prima di lui, nella secolare storia degli Ordini e delle Congregazioni religiose, aveva regalato alla Chiesa altrettante fondazioni.

Padre Pio nasce da poveri contadini a Pietrelcina nel 1887, muore nel convento di San Giovanni Rotondo il 23 settembre 1968 e tre giorni dopo, durante il funerale, il definitore generale dei cappuccini ed amministratore apostolico – che aveva contribuito a fare “liberare” il defunto da intricate ed inaudite “restrizioni” – alla fine del discorso legge un telegramma di condoglianze di Papa Montini. Novizio cappuccino (1903: quando la mamma gli dice: “Adesso non è più a me che appartieni, ma a san Francesco”) e quindi sacerdote (1910), nel 1916 entra nel convento di San Giovanni Rotondo per non lasciarlo fino alla morte.

Qui, in quello allora sconosciuto borgo garganico, un frate, quasi altrettanto ignoto, riceve le stimmate e diventa il prigioniero del confessionale più amato e più frequentato del mondo, crea i “Gruppi di preghiera” ed innalza “La Casa Sollievo della Sofferenza”, forgiandosi così nella più rude umiltà una grandezza per cui venne annoverato tra i “Grandi” del Sud.

Fare “qualche cosa”

Quando seguendo “l’invito di Leone XIII a pregare per il secolo – il ventesimo – che stava per cominciare”, il sedicenne chierico Giacomo Alberione, dopo la Messa solenne di mezzanotte nel Duomo di Alba trascorse altre “quattro ore” in adorazione innanzi a Gesù esposto, “una particolare luce” – ci confida lui stesso nel suo libro più pungolante Abundantes divitiae – gli “venne dall’Ostia”. Era una “luce” essenzialmente “missionaria” che da allora in poi illuminò tutta la sua vita e la Famiglia Paolina. In quella luce-programma tuonano moniti e tormenti: (“Venite ad me omnes” – “nuovi apostoli di oggi” – “unitevi” – “nuovo slancio missionario” – “nuovi mezzi di apostolato”…) che fecero fremere il giovane Alberione al punto che “si sentì profondamente obbligato a fare per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo qualche cosa“.

Che abbia fatto qualche cosa lo riconobbe anche Paolo VI, quando il 28.06.1969, appuntandogli sul petto la Croce “Pro Ecclesia et Pontifice”, disse: “Il nostro don Alberione ha dato alla chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore ed ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con mezzi moderni”.

Di questi qualche cosa mi si permetta di addurre tra i moltissimi un solo esempio, invero stupefacente. Immediatamente dopo le tre messe di mezzanotte, nel Natale 1931 don Alberione fa stampare dalle Figlie di San Paolo di Alba le prime mille copie di quella Famiglia Cristiana che doveva poi divenire il più diffuso settimanale cattolico del mondo. Ai vespri tenne un discorso sull’ “Amore al Vangelo”. Citato un passo di Sant’Epifanio (“Ave liber incomprehensus… Ave, o Maria, libro misterioso, che hai offerto in lettura al mondo la Parola, il Figlio del Padre!”), con accenti che davano quasi il brivido del divino, esclamò: “Oh Vangelo, sapienza eterna di Dio, che abiti in mezzo agli uomini, vero liber incomprehensus, sconosciuto ai più, che racchiudi luce e vita per noi!” Quindi all’eco degli antichi cristiani, che “come un sol uomo” erano “pronti per il Vangelo ad affrontare il martirio”, entusiasmò i suoi figli e le sue figlie, affinché “senza rispetto umano, con coraggio” esprimessero la loro vocazione portando il Vangelo in ogni casa, che era l’ideale, anzi il dramma cocente di tutta la sua vita.

Nell’inverno durissimo del 1940 Padre Pio decise di fare, come diceva, qualche cosa per gli ammalati. Qualche cosa, appena due parole, ma che fanno sognare quella fede che scuote le montagne. Fin dall’inizio del suo sacerdozio, la fraterna partecipazione alle angosce umane e la sua diuturna esperienza del dolore fisico (stimmate) fecero sentire a Padre Pio la drammatica necessità di venire incontro, in maniera concreta, a coloro che soffrono nel corpo. “Casa Sollievo della Sofferenza” risponde a questo anelito.

In piena guerra mondiale essa sorge quale organismo vivo e pulsante. Nel 1956 viene ufficialmente riconosciuta e quindi inaugurata dall’amico card. Lercaro, mentre nel rito della benedizione il coro cantava: “Dove è carità e amore ivi è Dio!”, inneggiando all’opera ed al fondatore, che vedeva così realizzato uno dei suoi tanti sogni, cioè un semplice qualche cosa per esprimersi nella umiltà del suo linguaggio. E così in un paese, quasi fino allora sperduto, s’innalza un ospedale, il più ampio ed attrezzato del Mezzogiorno, ove anche grandi della medicina vengono ad esprimere il loro contributo per debellare o almeno lenire la sofferenza.

Pure don Alberione, nella povertà degli inizi, sogna qualche cosa, cioè grossi stabilimenti con le macchine più sofisticate e persino vagoni del treno che vi passano per caricarvi la Parola di Dio (fatta giornale e libro) e portarla agli uomini di oggi assetati di verità. Sogna ancora vetrine e banconi delle librerie trasformati in nuovi pulpiti per una nuova evangelizzazione.

Quale sono gli altri qualche cosa di Padre Pio? È un crocifisso per cinquant’anni (1918-1968), “continuatore” paolino della Passione col cuore trafitto dai peccati del mondo per amore del suo Gesù, del Vangelo e delle anime. – Un sepolto in un confessionale per quasi tutta una vita, pronto ad accogliere, ascoltare, risanare, perdonare in nome di Dio. Sofferente dinanzi al male, al peccato, alla debolezza. Servo dei peccatori, dei disperati, degli smarriti, dei ribelli. – st but not least, tralasciando altri fenomeni che hanno scandito la sua esistenza – visioni, bilocazione, dono di guarigione –, ricordiamo una delle sue iniziative più spettacolari: i “Gruppi di preghiera” sparsi su cinque continenti. Rispondendo ad un’idea lanciata da Pio XII, fu il primo ad invitare i suoi innumerevoli fedeli, italiani e stranieri, a tradurre nella loro vita e nella società la pressante ingiunzione del Papa.

Quanto i due santi, completamente votati a Dio ed “al grande affare della salvezza umana”, dovettero pagare per le loro evangeliche avventure, è storia ancora in parte da scrivere.

Ma rimaniamo a Padre Pio: sospetti, calunnie, persecuzioni non solo non lo risparmiarono, ma venne sanzionato, spogliato e persino condannato dal Sant’Uffizio… Eppure negli ultimi anni della sua esistenza, questo povero frate, stanco, malato, conobbe una “fama mondiale” di cui nessun uomo di Chiesa beneficiò da vivo, eccetto qualche sommo pontefice.

«Visse in un mondo diverso dal nostro – commenta La Croix –. Respirava nella cristosfera. Voleva solo “vivere il Crocifisso”. Esprimere un giudizio sul Padre sarà lungo e difficile. Ma migliaia di testimoni si alzeranno per dire che ha accresciuto la loro convinzione della presenza divina e della verità del Vangelo».

Un misterioso incontro

Come appare dalla foto scattata in quella occasione, il 3 maggio 1965, quasi subito dopo pranzo, Padre Pio e don Alberione stanno colloquiando in una sala del convento dei padri cappuccini di San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia.

Partito da Roma verso le sei sull’auto guidata da Fratel De Blasio, il Primo Maestro giunse a Foggia alle 10 circa. Il giorno innanzi aveva pregato l’autista di tenergli pronta la macchina per l’indomani, senza però nominare né San Giovanni Rotondo né Padre Pio, ma indicandogli semplicemente Foggia come meta ed il nome di un cappuccino, Padre Angelico di Alessandria, col relativo indirizzo. Su tutto quanto sarebbe accaduto durante il viaggio, gli raccomandò in una maniera veramente insolita di conservare il massimo segreto, anche se per il buon discepolo, muto come una tomba, non ce ne sarebbe stato bisogno.

A Foggia l’attendeva Padre Angelico, a lui legato in rispettosi rapporti e col quale la sera precedente per telefono, personalmente, aveva preso appuntamento. Col frate salì in macchina anche Padre Ciannilli, superiore provinciale dei cappuccini di Foggia e quindi del convento di San Giovanni Rotondo. Qui giunti verso l’ora di pranzo, don Alberione viene condotto in refettorio, mentre Padre Angelico va in cerca di Padre Pio cui annunzia la presenza del Primo Maestro. L’interpellato fa un sorriso e, con tanta stanchezza e sofferenza sul volto (avendo confessato come al solito per tutta la mattina), risponde che non si sente di entrare in refettorio, ma che avrebbe aspettato l’ “illustre ospite” nella sala vicina. Don Alberione, dopo aver mangiato quasi nulla di un abbondante pranzo che gli era stato ammannito, è accompagnato da Padre Angelico là dove Padre Pio l’attende. Bacia la mano destra col guanto del cappuccino stigmatizzato, quindi siede accanto a lui su una poltroncina senza appoggiarsi allo schienale, quasi intendesse inginocchiarsi, tanta era la sua venerazione per Padre Pio!

Il colloquio non fu molto lungo: 20 minuti circa. Che cosa si sono confidati in quel misterioso incontro? Nessuno seppe mai rivelarcelo. Don Alberione si era recato da Padre Pio di propria iniziativa o vi venne mandato, oppure addirittura invitato dal Frate con le stimmate!? Frequentava allora le sessioni del Vaticano II quando, esattamente in quell’anno (1965), Padre Pio al suo ammiratore card. Bacci, inviatogli dal Papa, diede una specie di consiglio: «Il Concilio, per pietà, finitelo in fretta!»; per giunta don Alberione era palesemente “venerato” da Paolo VI. Aveva poi creato la casa di cura “Regina Apostolorum”, che poteva, forse, gettare luci sulla “Casa Sollievo della Sofferenza”, travagliata allora da tutt’altro che facili problemi… Sono forse vicini o lontani indizi per decifrare quel “misterioso incontro”!?

Non conoscendo assolutamente nulla di questo “misterioso incontro”, cinque mesi dopo, a fine settembre 1965, ebbi l’indicibile fortuna di andare pure io dallo stigmatizzato che destava un interesse ed un’ammirazione generali. Lo desideravo da tempo. Nel 1956 feci pubblicare dalle Edizioni Paoline Il vero volto di Padre Pio, che esattamente nel 1965 era già alla 9ª edizione e nel 1999 raggiunse la 32ª! Io stesso ne avevo scritto per la copertina il motto di lancio. L’autrice Maria Winowska, una nota studiosa di origine polacca, mi aveva assicurato che i cappuccini di San Giovanni Rotondo erano stati soddisfatti della sua biografia.

Chiedo a don Alberione con il quale mangiavo alla stessa tavola che sarei andato a Bari per portare lavoro a quella tipografia paolina. In un modo letteralmente sorprendente, mentre mi preparavo alla partenza coi soliti mezzi pubblici, don Barbieri, a nome del Primo Maestro, si offre di portarmi a Bari con la Lancia-Fulvia, la macchina che don Alberione non prestava, si può dire, a nessuno dovendo egli spostarsi di continuo per visitare le numerose sedi della Famiglia Paolina. Anche se non glielo avevo confidato, sapeva per altre vie che desideravo andare a San Giovanni Rotondo. E così nella stessa giornata, ritornando da Bari, a mezzanotte entrammo in San Giovanni Rotondo, ove all’albergo di un vecchio e generoso cooperatore paolino, Comm. Emilio Bevilacqua, affezionatissimo a don Alberione, per la prima volta, quello che per noi era un segreto si chiarì: il Primo Maestro era stato da Padre Pio e, subito dopo l’incontro, aveva salutato quattro Figlie di San Paolo e tre Pastorelle che erano là convenute.

Al mattino verso le quattro il direttore dell’albergo ci portò al convento, ove tra la folla mi avvicinai al cappuccino, che mi era stato indicato, per chiedergli di poterci confessare da Padre Pio.

  • Quando è giunto a San Giovanni?– mi domanda frettoloso.

A mezzanotte!

  • A mezzanotte?! E lei pretende di andare da Padre Pio, quando qui ci sono persone che arrivano da varie parti d’Italia e d’Europa e stanno attendendo da giorni?

Scusi tanto, Padre: non pretendo, ma chiedevo umilmente se era possibile, dovendo io rientrare subito a Roma.

  • Ma lei chi è?

Sono un sacerdote paolino, direttore generale delle Edizioni Paoline italiane e consigliere generalizio di don Alberione che mi attende a Roma per mezzogiorno. Intendevo inoltre presentarvi la nona edizione del Vero volto di Padre Pio che è uscita proprio in questi giorni (e trassi il libro dalla borsa).

Rasserenatosi, il frate mi rispose che Padre Pio non stava bene e che difficilmente ci avrebbe confessati ma che comunque l’avrebbe avvertito. Quindi ci accompagnò all’altare, in cornu epistolae, per assistere alla messa di Padre Pio, dopo la quale avremmo potuto celebrare.

Padre Pio diceva messa in latino, nonostante che con le ultime riforme liturgiche la lingua volgare fosse d’obbligo . Paolo VI, il 9 marzo 1965, su richiesta del vecchio cappuccino, gli aveva mandato il card. Bacci con l’indulto che lo autorizzava a celebrare la messa nella lingua della sua ordinazione.

Non ho parole per descrivere quella messa durata un’ora ed un quarto. Delle numerose descrizioni tentate da ascoltatori delle sue messe, per farsene una lontana idea, cito le impressioni di Jean Guitton: «…Andava avanti nella recita con sempre più sofferenza e, quando arrivò all’inizio del canone, si fermò come davanti a una scalata inverosimile, un appuntamento d’amore doloroso e radioso, un mistero inesprimibile, un mistero che poteva far morire. Lo sguardo che gettava verso l’alto, dopo la consacrazione, diceva tutto questo».

Immediatamente dopo, appena ebbi finito di celebrare messa, arriva il …sospirato cappuccino, che tutto allegro mi dice: “Padre Pio l’attende in confessionale!”. M’inginocchio tremante e, mentre sto farfugliando un’accusa per la quale mi ero tormentato tutta la notte: “Calma, calma, figliolo! – m’interrompe Padre Pio bonario. – Il Signore ti vuol bene!” e mi assolve porgendomi poi la destra col guanto perché gliela baci. Quindi, serio, serio, prosegue: “Non dimenticarti, figliolo, che stai alla scuola di un santo, di un santo (subito appresso, al mio confratello, autista del Primo Maestro, ripeterà argutamente: “Non ammazzarmelo quel santone!”). Quante cose egli vuole ancora fare per Gesù e per le anime servendosi dei mezzi più efficaci (alludeva ai mass media) per portare il Vangelo in ogni angolo del mondo. Seguitelo in tutto, in tutto, senza stancarvi mai! Te ne prego, figliolo, te ne prego”.

Nonostante la folla, appena uscito dalla chiesa cantai dalla gioia.

Giunto a Roma corsi da don Alberione con questa precisa battuta: “Signor Primo Maestro, sono stato a confessarmi da Padre Pio e dopo l’assoluzione mi ha parlato di lei e mi ha detto che…”! “Il Vecchio” – come allora di nascosto lo chiamavamo – con un gesto decisamente brusco m’interruppe (questa è storia, purissima storia!) e di botto mi chiese: “Che libri stai ora pubblicando?”

Inaudito! Don Alberione rifiuta di sentire un giudizio espresso da Padre Pio su se stesso!

Però come mi sentii piccolo, insignificante, davanti a quei due santi che avevano bruciato la loro vita per Gesù, per il Vangelo, per le anime lontane da Dio! La loro esistenza era stata regolata, direi quasi orchestrata, da una massima che don Alberione ripeteva spesso e che Padre Pio ridisse in altre forme: “Ogni giorno, in una silenziosità operosa ed amorosa, attendiamo alla preghiera ed all’apostolato”. Ogni giorno! Non ci furono pause, riposi, vacanze nella loro vita: è la realtà letterale.

Non posso dimenticarmi delle testuali parole che, nella mia lontana giovinezza di chierico liceale, sentii pronunziare da don Alberione e che di tanto in tanto mi martellano nella memoria: “Come è possibile augurare la requiem aeternam – l’eterno riposo – a chi ha poltrito per tutta una vita? Persino la pallida morte arrossirebbe”.

Valentino Gambi

da: Coop.Paolinopdf